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Piccola Guida per Capire Quando Quello Luccica Non è Oro

Introduzione alla Vitamina D: Storia, Usi, Credenze

2560 1709 Michele

Da più di un secolo abbiamo a che fare con la vitamina D. All’inizio usata solo per contro il rachitismo, ora è dispensata e venduta come micronutriente  utile nella prevenzione generale e nel benessere, con tante pubblicazioni e raccomandazioni cliniche da passare [quasi] per una panacea. Infatti, la mole di dati raccolti ha permesso  di ipotizzare – più spesso suggerire – azioni preventive su tumori, diabete e altre malattie. Tuttavia, tra suggestioni statistiche ed effetti nel mondo reale il passo è grande, e non sono mancate secche smentite sull’efficacia, soprattutto negli ultimi anni.  Quest’articolo ripercorre la storia della vitamina D, indicandone usi e fonti naturali, mettendo in luce le controversie che ruotano attorno al suo impiego.

NAVIGAZIONE RAPIDA
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<Dosi> <Fonti>
<Ricerche> <Sicurezza>
<In Sintesi> <Bibliografia>

Un po’ di Storia.

Il  Rachitismo era già descritto nell’Antica Roma, ma è nell’Inghilterra industriale che comincia a farsi notare, con casi in aumento in inverno e primavera che andavano a scomparire d’estate. Nel 1919, grazie ai lavori di Harriette Chick la luce venne identificata tra le prime cure possibili. Nello stesso anno, Edward Mellanby, osservò la capacità dell’olio di fegato di merluzzo di prevenire il rachitismo, almeno nei cani, probabilmente per la presenzae un fattore liposolubile – una specie di “vitamina A” – a garantirne l’effetto. Mellanby è tutt’ora il motivo per cui anni si rincorrevano i bambini con in mano un cucchiaio di “cod liver oil”: un suo studio clinico (1922) confermò infatti che quest’olio,  così come la  luce solare e l’esposizione agli ultravioletti poteva curare il rachitismo infantile, sebbene attribuisse gli effetti alla vitamina “A”.

Cod liver oil. Fonte privilegiata di Omega - vitamine lipofile e, ntauralmente, vitamina D3

L’Olio di fegato di merluzzo è stato l’alternativa ai multivitaminici per un’intera generazione. Tra le vitamine che forniva, naturalmente, c’era la Vitamina D3

Negli Stati Uniti dimostrarono che anche un olio carente in Vitamina A poteva curare il rachitismo, almeno nei modelli animali. S’ipotizzò dunque l‘esistenza di una quarta vitamina – la vitamina D – a conferire questa proprietà.



Negli anni, grazie agli studi di Hess e colleghi si comprese come la vitamina D fosse in realtà una miscela di diverse moelcole, tra cui la Vitamina D2. La forma naturale, o vitamina D3, fu invece scoperta nel 1936. Ambedue venivano utilizzate per trattare rachitismo, osteomalacia, l’ipoparatiroidismo e la malattia ossea renale. Si scoprì in seguito, invece, che a modulare l’assorbimento del calcio non erano la D2 o la D3, ma i suoi metaboliti, la 25-idrossivitamina D (25OHD) e il calcitriolo, il vero attivo, identificato nel 1971. I primi farmaci divennero disponibili per l’uso clinico dal 1974.


Metabolismo della Vitamina D: Cosa e Come Succede

La pelle è la principale fonte di vitamina D. Questa viene prodotta a livello cutaneo partendo dal 7-deidrocolesterolo, attraverso un processo fotochimico innescato dagli ultravioletti B (UVB). La reazione avviene in assenza di enzimi, cosa rara in biochimica, e produce pre-vitamina D3. Questa subisce un’altra reazione di tipo termico (un’isomerizzazione) che raggiunge il picco di produzione dopo 30-60 giorni dall’esposizione solare, producendo la Vitamina D3

Struttura molecolare della Vitamina D3

Struttura Molecolare del Colecalciferolo, o Vitamina D3. Presenta analogia strutturale con il colesterolo e gli ormoni steroidei, con cui è correlata anche da un punto di vista sintetico.

Questa in circolo e raggiunge il fegato, dove gli enzimi della famiglia del P450 la convertono in 25-idrossivitamina D3 o 25(OH)D3, o calcidiolo. Questa si lega alle proteine sieriche, rimanendo il metabolita più stabile.  Tuttavia, la forma attiva della vitamina D, il calcitriolo, o 1,25-diidrossivitamina D, viene sintetizzata nei tubuli contorti prossimali del rene dall’enzima mitocondriale citocromo P 27B1. Questa diffonde nel corpo, legandosi a recettori quasi ubiquitari e modulando l’espressione genica.  Nell’intestino, stimola l’assorbimento di calcio e fosforo. Senza vitamina D, solo il 10-15% del calcio e il 60% del fosforo verrebbero assorbiti. L’aumento di assorbimento del calcio è al 30-40%, mentre del fosforo all’80%. Il calcitriolo si lega a specifici recettori della vitamina D negli osteoblasti, cellule del tessuto osseo che ne favoriscono l’accrescimento.




Il Problema della Dose: Quanta ne serve?

La vitamina D3 in circolo ha un’emivita breve (12 ore), il che la rende difficile le misurazioni in condizioni di laboratorio. Il suo metabolita, la 25OHD, ha invece un’emivita di circa 2 settimane e tiene conto non solo della sintetizzata, ma anche di quella assunta con l’alimentazione. Questo la rende  ideale per valutare valori ed carenze. Al patto di stabilire un valore di riferimento, naturalmente.

L’Institute Of Medicine americano (IOM), riunì nel 1997 un comitato per studiare i dati disponibili su vitamina D. Le conclusioni, all’epoca, impedivano di avere una stima globale dell’effetto di vitamina D e calcio sulla salute dell’organismo. Per stimare la dose giornaliera raccomandata (RDA, Recommended Daily Allowance), era necessario individuare un marker, ossia un parametro per adeguare la dose.

RDA (recommended daily allowance)

L’RDA è il valore raccomandato di un nutriente per soddisfare le esigenze del 97,5% della popolazione. Viene indicato dal National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine statunitense. il valore LARN è da intendersi come una controparte italiana dell’RDA.

Fu scelto quello correlato alla salute muscoloscheletrica. Diversi studi avevano infatti dimostrato che un livello di 25OHD attorno 20 ng/ml era associato a una minore incidenza di fratture, con livelli di paratormone più bassi e un rinnovamento osseo normale. Questo era ottenibile – nel 97,5% della popolazione – somministrando 600 UI di vitamina D3 e così fu fissata  la RDA. Negli anziani, per precauzione, a causa di comorbidità, incertezze sulla dieta ed esposizione solare, la RDA per gli anziani fu aumentata a 800 UI. Questi valori tengono conto anche di altri fattori, come obesità, esposizione solare, attività fisica, stato nutrizionale, pigmentazione della pelle e farmaci, interventi chirurgici e malattie croniche [vd. assorbimento]. In Tabella, le principali fonti di Vitamina D3.


Fonti alimentari di vitamina D

Le principali forme biologiche di vitamina D (calciferolo) presenti in natura sono riportate nella Tabella.

Fonti di Vitamina D Contenuto di vitamina D (UI) Tipo(i) di vitamina D
Olio di fegato di merluzzo 400-1.000 UI/cucchiaino D3
Salmone fresco selvatico 600–1.000 UI/100 ml D3
Salmone fresco d’allevamento 100-250 UI/100 ml D3, D2
Salmone in scatola 300-600 UI/100 ml D3
Sardine in scatola 300 UI/100 ml D3
Sgombro in scatola 250 UI/100 ml D3
Tonno in scatola 236 UI/100 ml D3
Funghi shiitake freschi 100 UI/100 ml D2
Funghi shiitake secchi 1.600 UI/100 ml D2
Tuorlo d’uovo 20 UI/unità D3, D2

 


RDA, Opinioni e Variazioni

La RDA proposta suscitò polemiche; molti specialisti non erano d’accordo, pensando fosse troppo bassa. Nel 2010 la Endocrine Society pubblicò nuove linee guida in netto contrasto con l’IOM, raccomandando che un livello normale  30 ng/ml, indicando come “insufficienti” valori  tra 20 e 30 ng/ml e attestando livelli inferiori a 20 ng/ml come carenti. Per raggiungere l’obiettivo di 75 nmol/L (30 ng/ml) si consigliava alle persone di assumere 1.500-2.000 UI di vitamina D al giorno e fino a 10.000 UI/giorno per correggere la carenza di vitamina D. Inoltre, la Endocrine Society suggerì che aumentare i livelli di vitamina D oltre la raccomandazione dell’IOM americano avrebbe potuto ridurre l’incidenza di numerose malattie extra-scheletriche, tra cui cancro, malattie cardiache, cadute e depressione.




Ricerca sulla vitamina D: La Fase Successiva

In effetti, nel 1988 si scoprì che la distribuzione dei recettori per la vit.D era ubiquitaria e questo portò all’idea che quantità maggiori di vitamina avrebbero potuto dar beneficio all’organismo, prevenendo magari l’insorgenza di malattie non scheletriche come cancro, infarti, depressione, infezioni toraciche, diabete e altre malattie. Di conseguenza, già dal 2005, iniziò una nuova fase d’indagine, con  grandi studi clinici in diversi  Paesi del mondo. Spesso, per gestire meglio il gran numero di partecipanti, si somministravano dosi molto elevate [boli] annualmente, mensilmente o settimanalmente. A Posteriori, per una migliore qualità dei dati, sarebbe stato più utile eseguire studi di fattibilità su dosi giornaliere rispetto a dosi di bolo infrequenti, alla luce di alcuni risultati inusuali di questi studi. [vd. assorbimento].

La mole di dati clinici è alla base degli studi sull’efficacia delle terapie. In generale, a una migliore la qualità di questi,  farà seguito un migliore qualità dei risultati. Nel caso della vitamina D3, esistono moltissimi dati, ma anche moltissimi fattori confondenti.

Si può anticipare che gli studi randomizzati non hanno mostrato una riduzione significativa dell’incidenza di fratture, cancro, malattie cardiache, diabete di tipo 2 o infezioni respiratorie superiori.  Andando a dettagliare:

1. Cancro.

E’ Plausibile, da un punto di vista biologico, che un deficit di vitamina D sia associato al cancro?

Sì. Studi su colture cellulari e modelli animali  suggeriscono che l’1,25(2OH)D3 (calcitriolo) promuova la differenziazione cellulare, inibisca la proliferazione cellulare vascolare e tumorale, e presenti anche proprietà antinfiammatorie e proapoptotiche.

Ci sono evidenze epidemiologiche che associano i livelli di vitamina D al cancro nell’uomo?

Sì.  Si osserva, ad esempio, una maggiore incidenza di tumori in paesi con minore esposizione solare, una maggiore mortalità per cancro in inverno e tra gli individui di carnagione scura. Alcuni studi osservazionali isolati hanno associato a bassi livelli sierici di 25(OH)D3 una maggiore incidenza e mortalità per cancro, sebbene altri studi non abbiano confermato tale associazione.

Esistono revisioni sistematiche di questi studi sulla relazione tra vitamina D e cancro nell’uomo?

Sì. Alcune Meta-analisi hanno suggerito una possibile associazione tra livelli più elevati di vitamina D e una leggera riduzione dell’incidenza del cancro colorettale, un aumento della mortalità per cancro in generale (solo negli uomini) e nessuna associazione con il cancro alla prostata e al seno. Altri studi non hanno nemmeno rilevato un’associazione significativa tra vitamina D e tumori meno comuni (endometrio, esofago, ovarico e pancreatico). Al contrario, è stato osservato un rischio più alto di cancro al pancreas associato a concentrazioni sieriche di vitamina D > 40 ng/ml .

Queste evidenze sono conclusive di per sé?

No. I risultati sono ambigui. Creano confusione nell’interpretazione dei dati fattori come l’obesità, uno stile di vita sedentario, la pelle scura e il tipo di dieta. Inoltre, questi studi sono soggetti a bias inverso: spesso, il paziente oncologico è malnutrito e questo causa deficit di vitamina D.

2. Malattie cardiovascolari 

Ci sono degli studi che valutino l’associazione tra vitamina D e incidenza e mortalità per MCV?

Sì. Una meta-analisi [circa 70.528 individui, prevalentemente donne over 70] ha dimostrato che somministrare dosi variabili di vitamina D e calcio ha prodotto una riduzione lieve della mortalità  (RR = 0,91, IC 95% = 0,84-0,98), mentre non si è osservato alcun effetto significativo* somministrando solo vitamina D. Altri studi, in cui sono stati misurati proteina C-reattiva (PCR) e Pressione Arteriosa in donne che hanno ricevuto 25.000 UI/giorno di vitamina D3, non ha mostrato alcuna differenza rispetto al placebo, dopo 4 mesi d’osservazione. Un’altra meta-analisi non ha mostrato alcun effetto della vitamina D sul pressione sanguigna sistolica o diastolica. Altri Studi ancora hanno mostrato effetto della vitamina D pari al placebo sull’incidenza di infarto miocardico, angina pectoris, ictus e attacco ischemico transitorio.

*: statisticamente

Si può concludere che la vitamina D sia associata a una minore incidenza e mortalità per MCV e che la sua integrazione possa prevenirla?

No. Gli RCT disponibili non hanno dimostrato un’associazione causale tra supplementazione di vitamina D e riduzione dell’incidenza o della mortalità per MCV,  dall’ipertensione alla cardiopatia ischemica. Altri RCT in corso potrebbero fornire maggiori informazioni.

3. Diabete mellito

C’è una plausibilità biologica che la vitamina D sia associata al diabete?

Sì. Diversi studi indicano la possibilità di utilizzare la vitamina D nella prevenzione e nel trattamento del diabete mellito. Le sue azioni sul sistema immunitario, per esempio, potrebbero essere utili nei pazienti con diabete mellito di tipo 1; la vitamina D può migliorare l’attività delle cellule beta, sia direttamente attraverso i loro recettori, sia indirettamente regolando l’omeostasi del calcio. Può anche influenzare la sensibilità all’insulina. Al rovescio, uno studio ha dimostrato un peggioramento del controllo del diabete, nei paesi con clima temperato, durante l’inverno.

Ci sono evidenze epidemiologiche che associno i livelli sierici di vitamina D al diabete nell’uomo?

Sì. Ad esempio, uno studio trasversale del National Health and Nutrition Survey (NHANES) negli Stati Uniti, che ha incluso 9.773 partecipanti, ha osservato che i livelli di 25(OH)D3 erano inversamente associati alla prevalenza di diabete mellito di tipo 2, associazione che persisteva anche dopo aver controllato per altre variabili. Un’altra meta-analisi ha trovato un’associazione inversa tra incidenza del diabete mellito di tipo 2 quando si confrontano gruppi con assunzione combinata di vitamina D e calcio a dosi diverse. Uno studio con 20 pazienti con diabete mellito di tipo 2 ha avuto un esito favorevole con l’uso di vitamina D, mostrando un miglioramento nella secrezione di insulina e peptide C nei pazienti appena diagnosticati, suggerendo che la vitamina D possa rallentare la progressione verso la malattia.

Queste evidenze sono conclusive di per sé?

No. La presenza di fattori confondenti, sempre possibili in studi osservazionali, rende necessari studi sperimentali come gli RCT per stabilire un rapporto causale tra vitamina D e diverse malattie, incluso il diabete. Inoltre, ci sono altre spiegazioni per i risultati di questi studi.

4. Cadute

L’ipotesi per cui la vitamina D si correli al rischio di cadute è plausibile?

Sì. Diversi studi hanno correlato l’integrazione di vitamina D con una riduzione delle fratture, anche se questa riduzione potrebbe essere dovuta almeno in parte al fatto che le persone cadono meno spesso.

La possibile associazione risiede nel fatto che nei muscoli sono presenti recettori per il calcitriolo  e che la vitamina D è associata alla sintesi proteica muscolare. Alcuni studi hanno dimostrato che la vitamina D migliora la funzione muscolare e può ridurre le cadute, soprattutto se associata al calcio. Un’altra ipotesi è quella della diminuzione dei riflessi negli individui con carenza di vitamina D, che spiegherebbe le cadute indipendentemente da lesioni muscolari. Anche il paratormone gioca un ruolo, con possibile correlazione inversa alla crescita muscolare.

Ci sono evidenze che associano i livelli sierici di vitamina D alle cadute nell’uomo?

Sì, anche se i risultati sono contrastanti. La carenza di vitamina D negli individui con età > 65 anni si verifica nel 40-50% degli individui che non hanno una storia di cadute e nel 70% di quelli con una tendenza alle cadute ripetute. Va detto, tuttavia, che la forza muscolare diminuisce fisiologicamente con l’età e che non esiste una prevenzione a base di vitamina D.  Altri studi hanno dimostrato che l’integrazione di 400 UI/giorno di vitamina D non ha ridotto le cadute in 354 anziani olandesi istitutionalizzati con età > 70 anni e che l’integrazione di vitamina D.

Queste evidenze sono conclusive di per sé?

No. Se c’è un’associazione tra vitamina D e cadute, questa si verifica principalmente negli anziani non istituzionalizzati con deficit di vitamina.

Ci sono revisioni sistematiche di RCT che hanno valutato l’integrazione di vitamina D sull’incidenza e la mortalità da cadute?

Sì. In una prima meta-analisi, Bischoff-Ferrari et al. hanno analizzato cinque studi randomizzati e controllati che hanno coinvolto 1.237 pazienti anziani con stato di salute stabile, e hanno concluso che l’integrazione con vitamina D riduce le cadute del 22% (OR = 0,78; IC 95% = 0,64-0,92) rispetto all’integrazione con calcio o al placebo, con un numero necessario per trattare (NNT) di 15 durante il periodo di studio. L’effetto era significativo solo nelle donne. Tuttavia, i livelli sierici di vitamina D non sono stati misurati e il livello di attività fisica non è stato quantificato; inoltre, non è stata stabilita la dose di vitamina D, né il tipo e il tempo dell’integrazione, o se fosse necessaria l’associazione con il calcio [45].

Forse. Nel caso della mortalità, l’evidenza è indiretta, ovvero, se ci sono meno cadute, come osservato in alcuni studi e meta-analisi, e le cadute sono associate a un aumento della mortalità, allora ci sarebbe una riduzione della mortalità con l’integrazione di vitamina D. Le cadute si verificano nel 30% degli over 65, causando circa il 5% dei casi di fratture, e nel 40-50% degli over 80 negli Stati Uniti. Questo è associato a un’elevata morbilità e mortalità, oltre che a costi elevati [47, 48].

5. Malattie autoimmuni

Vale la pena di citare lo studio VITAL, condotto su 25.871 partecipanti per 5 anni che ha testato l’effetto di una  di 2000 UI di vitamina D con 1 g di acidi omega-3 al giorno. Rispetto al placebo,  il gruppo che ha assunto solo vitamina D, l’incidenza complessiva di malattie autoimmuni è stata inferiore (n=123 contro n=155), con un con un significatività statistica parziale (ρ=0,05). Questa aumenta circoscrivendo i dati agli ultimi 3 anni con un’incidenza di malattie autoimmuni ulteriormente ridotta (HR 0,61; 0,43-0,86, p = 0,005).

6. Infezioni respiratorie

Sono stati condotti due grandi studi sul tema, entrambi ad alte dosi. Nel primo, condotto in Nuova Zelanda, 5.110 adulti hanno assunto vitamina D, inizialmente 200.000 UI e poi 100.000 UI al mese, per per 3 anni e mezzo. L’incidenza di infezioni respiratorie acute è stata simile  al placebo. Nel secondo studio, australiano, più di 21.000 partecipanti sono stati trattati con vitamina D [60.000 UI al mese] o placebo per 5 anni. Anche in questo caso, le infezioni delle vie respiratorie si sono verificate con frequenza simile in entrambi i gruppi. Le  meta-analisi di dati aggregati provenienti da 43 studi forniscono risultati congruenti con gli studi elencati, con benefici minimi [OR di 0,92 (0,86-0,99] in favore della vitamina D, somministrando dosi basse, vicine alla RDA, da 400 UI a 1000. I benefici erano massimi per piccoli intervalli temporali – inferiori a 12 mesi – con un odds ratio di 0,78 (0,65-0,94) a favore della Vitamina D.

7. Tubercolosi

Anche l’effetto della vitamina D nella prevenzione della tubercolosi è stato valutato. In Mongolia, più di 8000 bambini sono stati coinvolti, sooministrando ad alcuni 14.000 UI settimanali di D3 e ad altri placebo, per una durata complessiva di 3 anni, verificando alla fine con il test di Mantoux la positività al micobatterio. Alla fine, anche in questo caso, non c’erano differenze significative tra i gruppi nei test TB positivi, 3,6% nel gruppo D e 3,3% nel gruppo placebo. Nel corso dello studio, si è passati da un livello scarso ad uno ottimale di vitamina D3 (30 ng/mL). Due recenti studi clinici controllati con placebo sulla vitamina D hanno fornito risultati negativi per quanto riguarda la prevenzione del Covid-19 e delle infezioni respiratorie superiori [85, 86].

8. CoViD-19

Non dovrebbe stupire come l’effetto della vitamina D sia stato studiato nella prevenzione del CoViD-19. Da segnalare due studi, uno norvegese e uno inglese, che concordano nell’affermare che somministrare la D3 su campioni significativi della popolazione non protegge dal CoViD-19 più quanto non faccia un placebo. In altre parole, il tasso di positività misurato in PCR e d’infezioni in senso clinico si è rivelato, a 6 mesi di distanza, lo stesso. Questi come molti altri studi possono esser stati viziati da problematiche di design e dall’assunzione autonoma da parte della popolazione di Vit. D3.

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Michele

CTF, attualmente num.933 dell'Ordine Farmacisti Latina. Amo la farmacologia, la divulgazione scientifica e la tecnologia.

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